sabato 29 giugno 2013

Il colloquio con lo psicologo


Decidere di rivolgersi ad uno psicologo può significare diverse cose: il "caso" più frequente è quello in cui una persona che ha maturato la consapevolezza di avere un disagio più o meno intenso. In questo specifico caso, ovviamente, può essere insorto un sintomo come ad esempio ansia, depressione, disturbi alimentari o da dipendenze, ecc.
Una persona però può anche decidere di voler affrontare un percorso di conoscenza personale per capire "da dove provengono" alcuni suoi comportamenti e modi di pensare ed eventualmente modificarli, se gli creano difficoltà: parliamo ad esempio di difficoltà a gestire lo stress, la rabbia, difficoltà comunicative e relazionali, problematiche legate all'autostima e alle capacità assertive, ecc.
Infine, ci si può rivolgere ad uno psicologo per un "counselling" su particolari situazioni di vita in cui c'è necessità di prendere delle decisioni per le quali si desidera essere supportati o, perchè no, aiutati: quindi, in questi casi l'obiettivo sarà aumentare il "problem solving" della persona e le sue abilità così dette di "decision making" ed altre che possono essere utili nella particolare situazione di vita del momento.
Una seduta psicologica "inizia", quindi, con una richiesta da parte di una persona ad un professionista: una richiesta d'aiuto.

Molte persone, immaginando una seduta dallo psicologo, si rappresentano uno scenario abbastanza tipico, stereotipato e, a dirla tutta, per niente corrispondente con la realtà (o almeno non sempre), per lo più trasmesso dai media: paziente sdraiato sul lettino a parlare della sua infanzia e dei vari traumi subiti (9 volte su 10 traumi dovuti al rapporto con i genitori) e psicologo che prende appunti (o peggio che dorme!).
In realtà, non avviene proprio questo; o meglio, per essere precisi, lettino e intenso lavoro sul passato sono tecniche proprie di uno psicoanalista, cioè uno psicologo che ha preso una specializzazione in psicoanalisi (tuttavia questa differenziazione non è sufficiente poichè sarebbe riduttivo dire che la psicoanalisi è solo questo!).

La seduta psicologica è innanzitutto un colloquio fra due persone: la persona che porta il suo disagio, il suo problema che "fa una domanda" e lo psicologo, che mette a disposizione la sua competenza professionale.
Lo psicologo, tramite il colloquio, esamina in maniera più approfondita il problema presentato dalla persona: cerca di capire, insieme alla persona, quali possono essere le cause che hanno scatenato il problema e cerca, sempre insieme alla persona, delle possibili soluzioni ad esso. Tecnicamente questa fase iniziale è l'analisi della domanda e può "durare" anche più di una seduta; talora, a percorso iniziato, la domanda iniziale di aiuto può anche mutare, perchè magari nascono nuovi bisogni nella persona e/o si identificano situazioni e obiettivi ulteriori.

Potrebbe sembrare semplicistico dire che dallo psicologo si va solo per parlare e in effetti non è così semplice.

Lo psicologo possiede strumenti che aiutano la persona a focalizzare meglio i suoi pensieri e le sue emozioni e ad esprimerli appieno; se necessario, insegna alla persona tecniche per gestire i problemi (ad esempio tecniche di problem solving, tecniche di rilassamento, tecniche di gestione dell'ansia, gestione dello stress, tecniche per potenziare le abilità sociali, abilità assertive e comunicative e molte altre); cerca di alleviare le sofferenze della persona, fornendo ad essa ma soprattutto tramite ciò che la persona gli porta una chiave di lettura (storia del disturbo) del suo sintomo e una possibile soluzione.
Lo scopo dei colloqui è capire, psicologo e paziente insieme, qual è il problema, cosa lo ha causato e come mai continua e permanere.
Lo psicologo cerca di comprendere e far comprendere le modalità, spesso automatiche e incosapevoli, che la persona mette in atto quando si presentano i problemi e insieme cercano modi più efficaci di agire.
Può essere utile durante le sedute l'utilizzo di test psicodiagnostici, che servono a valutare alcuni aspetti della vita della persona o l'intensità di alcuni sintomi/disturbi.
Anche relativamente ai test psicologici esistono alcuni pregiudizi: il più diffuso è probabilmente quello secondo cui con i test psicologici si capisce TUTTO di una persona, se ne sonda la personalità e si scoprono chissà quali segreti.
Cosa non esattamente vera. Vi sono dei test che valutano si aspetti della personalità ma è anche vero che se una persona non risponde "onestamente" alle domande di un test, l'unica cosa che fa è invalidare il test stesso, rendendo inutili i risultati.
Nei test non esistono maniere giuste o sbagliate di rispondere e lo psicologo non utilizza i test perchè vuole sapere chissà cosa su una persona, magari qualche segreto che la persona vuol tenere per sè: lo psicologo di una persona conosce solo ciò che la persona gli dirà.
Quindi i test, se utilizzati, servono allo psicologo ad avere una visione più completa del problema e della persona; visione che ovviamente viene condivisa con il paziente (ovvero lo psicologo NON tiene per sè i risultati dei test ma li comunica alla persona, SEMPRE!).
Così come non deve essere un segreto COSA è il disagio che sta vivendo la persona: che si chiami ansia, depressione, fobia o altro: la DIAGNOSI, che tutti vogliono, DEVE essere condivisa e condivisi devono essere i metodi per fronteggiare il problema, colloqui psicologici, sostegno, tecniche particolari.
La persona deve sapere cosa verrà fatto durante il percorso psicologico o durante la terapia e perchè viene fatto, quali sono gli obiettivi!
In fondo è della loro vita che si parla e del loro benessere mentale: non condividere con il paziente significa semplicemente non creare alcuna relazione terapeutica efficace.
Non esiste colloquio ed eventuale sostegno e/o psicoterapia che non si basi sulla relazione terapeutica: rispetto, fiducia, onestà, umiltà reciproci ne sono alla base e senza di esse la persona non sarà motivata al percorso e lo psicologo non sarà un professionista degno di questo nome.
In conclusione una seduta psicologica è un "colloquio fra due persone che crea una relazione": un membro della relazione utilizza il colloquio per portare un problema e cercare di risolverlo; l'altro membro offre conoscenze, strumenti teorici e pratici, calore, empatia, accettazione incondizionata e professionalità per risolvere insieme alla persona il suo problema.
Non ci sono tempi prestabiliti, salvo per alcune circostanze molto specifiche.

Si può però anzi si DEVE stabilire su cosa lavorare e cosa ottenere: a decidere questo deve essere la persona che chiede aiuto per riprendere in mano la propria vita e questo passo lo fa già ammettendo lei stessa cosa vuole ottenere.
Durante il colloquio con lo psicologo una persona può più precisamente focalizzare il proprio obiettivo da raggiungere e questo restringe il campo d'azione su cui intervenire.
Per capirci: spesso una persona dice "semplicemente" che sta male, che è insoddisfatta, che non è serena; in terapia io chiedo alla persona di dimenticare questi termini significano poco e non ci dicono nulla su COSA crea o mantiene una situazione.
Quindi, il primo obiettivo, è identificare cosa è il malessere della persona; già questa cosa, tramite il colloquio psicologico, allevia moltissimo lo stato d'animo delle persona che, credendo che sia l'intera loro vita ad andare a rotoli, ad essere confusa, ecc., si rendono conto di avere ANCORA moltissime aree della loro vita funzionali e che, a causa dei loro automatismi emotivi e comportamentali, non riescono più a vedere razionalmente e con uno stato emotivo adeguato l'effettiva portate del loro malessere.

Stabili gli obiettivi di un qualsiasi intervento psicologico è, dunque, il primo passo da fare tramite i colloqui; tutto quanto avviene dopo, attraverso il consolidarsi della relazione terapeutica e l'acquisizione di conoscenze sul problema da parte sia della persona che dello psicologo, varia a seconda dell'orientamento teorico proprio di ogni professionista che, in base alle proprie competenze, offrire un "metodo" piuttosto che un altro; ognuno, sempre e comunque, mirato al recupero di una condizione di benessere della persona.

martedì 18 giugno 2013

Quando chiedere aiuto allo psicologo?


Purtroppo, troppo spesso, le persone decidono di rivolgersi ad un professionista abbastanza tardi, anche se, ahimè, a ragion veduta.
Nel 2013 l'alone che circonda la figura dello psicologo (e dello psicoterapeuta!) resta ancora circondata e intrisa da varie e svariate influenze che vanno dallo stimato professionista medico (ma lo psicologo un medico non è!!) al mago che risolverà i problemi perchè basta che gli parli e lui capisce tutto (magari!) per finire ad essere un non lontanissimo parente di astrologi e cartomanti (con tutto il rispetto per queste altre professioni) per finire con l'essere un ciarlatano e basta.
Dunque, grazie anche alle influenze dei mass media (film, libri e persino musica, specie di origine americana) e di una sub-cultura (tipicamente italiana) improntata al "i panni sporchi si lavano in famiglia" piuttosto che "non mi serve lo psicologo non sono mica matto!", la sofferenza e il disagio psicologico dilagano ad ogni età e con differenti intensità sempre più frequentemente, soprattutto nella attuale società contemporanea e di certo non è d'aiuto a nessuno lo scarso supporto fornito anche dai medici di base, troppo facilmente propensi a dispensare farmaci piuttosto che suggerire utili percorsi di salute mentale.

In genere, dunque, capita che una persona (o un suo familiare o una persona vicina) si rivolga ad uno psicologo solo quando i sintomi di un qualche disagio (ansia, panico, depressione, disturbi alimentari o altri) sono diventati ingestibili: la vita della persona è compromessa in vari ambiti e la sua qualità di vita e decisamente bassa.

Si può ricorrere all'aiuto dello psicologo per svariati motivi: lo psicologo non si occupa (o almeno non solo!) di "matti" (per quello che possa poi significare questo termine oggigiorno...) 
Pensiamo ad esempio a dei sintomi di ansia che iniziano a manifestarsi per un qualunque motivo: si tende a pensare che sia qualcosa di passeggero e, fortunatamente, molte volte lo è.
Altre volte, invece, questi sintomi iniziano a peggiorare: aumentano di frequenza, di intensità (spesso diventano delle vere e proprie crisi di ansia acuta o, peggio, degli attacchi di panico) e, a lungo andare, se non trattati in tempo e in maniera adeguata, possono invalidare la  vita di una persona, nel campo sociale, affettivo, lavorativo, ecc.
La persona colpita da questi sintomi inizierà a non uscire più, per paura di sentirsi male e non poter gestire i sintomi: questa "illusione" è in realtà evitamento, un comportamento (in realtà una vera e propria tecnica di sopravvivenza) che permette di evitare, appunto, situazioni, luoghi, persone che nella nostra mente potrebbero innescare i sintomi ansiosi (questa modalità comportamentale è valida per tutti i disturbi: ansia, depressione, fobie...).

Rivolgersi ad uno psicologo sin dai primi segnali di disagio è essenziale per prevenire l'aggravamento di una situazione.
Spesso i disagi mentali arrivano in maniera insidiosa, lentamente e ci si rende conto di essi solo quando esplodono potentemente nelle nostre vite; sarebbe bene che nella società odierna, così frettolosa, così egoista, così fortemente stressante, passasse da ogni ente di cura l'interesse a curare la propria sfera psicologica, con servizi adeguati e proposte professionali facilmente fruibili per tutti.
Lo psicologo è il professionista che può capire il disagio che una persona vive, fornire spiegazioni sul perchè sta vivendo una situazione di malessere e "tranquillizzarla" su ciò che sta passando (tecnicamente si dice "normalizzare", ovvero far capire alle persone, in maniera adeguata, che ciò che vivono non è indice di gravi malattie nè fisiche nè, soprattutto, mentali!).

Attraversare momenti di malessere psicologico può capitare: soffrire di depressione, ansia, attacchi di panico (tanto per citare i malesseri più diffusi) NON è indice di pazzia!
Spesso, le persone hanno paura proprio di questo: credono che soffrire di ansia o attraversare un periodo di depressione equivalga all'esordio della pazzia.
E poi ci sono i sentimenti di colpa e la vergogna dovuti a retaggi secolari connessi alla sofferenza mentale: la sofferenza psicologica diventa colpa della persona che ne soffre (etichettato come "debole") ma anche della famiglia di cui fa parte (colpa di genitori, famiglia, paese, nazione e tutto il resto a presso!).
Nasce la paura dello stigma sociale: "bisogna" tenere nascosti i sintomi della "malattia" così da non poter essere riconosciuti dalla società. 

I malesseri psicologici sono spaventosi: come si avverte un sintomo ci si spaventa; la prima volta è un trauma che si cerca immediatamente di dimenticare, spesso con mezzi assolutamente inadeguati: alcool, condotte lesive, farmaci, ecc.
Poi capita che il sintomo si ripresenti una seconda volta, una terza e poi ancora e ancora; e ogni volta la persona fa di tutto per arginare e contenere i "danni" dei sintomi: non ne parla per vergogna e ci si difende e ci si rinchiude sempre più, nell'attesa angosciosa che si ripresenti il sintomo o che scompaia magicamente.
Alla fine, però, purtroppo, il sintomo diventa parte della vita della persona, diventando cronico, sepolto sotto tutto ciò che una persona ha fatto per "nasconderlo", "non pensarci", "metterlo da parte".
Non si cerca supporto, nemmeno dagli amici o dai familiari; non se ne parla per vergogna e timore di essere diventata una "persona diversa": "un tempo ero quello forte: mai avrei pensato mi potesse capitare una cosa simile, a me. Io che ero uno su cui tutti hanno sempre fatto affidamento, il forte della situazione" (cit. "Un mio paziente")
Con l'aiuto dello psicologo la persona impara a capire che la mente umana mette in atto le più svariate strategie per fronteggiare le situazioni difficili e/o dolorose: alcuni funzionali, altre meno.
E quando si presentano le strategie non funzionali, perchè limitanti la vita di una persona, chiedere aiuto allo psicologo è fondamentale per imparare nuove strategie per fronteggiare i problemi della vita.
Questo non vuol dire che la persona sia sbagliata o che il suo modo di vivere sia sbagliato: significa che un problema richiede una soluzione che una persona da sola non riesce a trovare.
Le strategie che mettiamo in atto di fronte ai problemi, alle sfide che la vita ci pone le impariamo sin dall'infanzia e si consolidano nel tempo, attraverso l'esperienza e la maturità.
Alcune strategie ci saranno utili per tutta la vita e in tutte le situazioni mentre altre risulteranno inefficaci e questo non perchè ci manchi qualcosa e, quindi, siamo sbagliati ma perchè in quella situazione non ci siamo mai trovati prima: quindi, non abbiamo gli strumenti adatti per fronteggiarla perchè nessuno ce li ha insegnati!
Diventati adulti è difficile che riusciamo a cambiare un modo di pensare e di agire difronte alle situazioni nuove; si cerca di mettere in atto strategie che conosciamo o si tenta di trovarne di nuove, che possono o meno andare bene.
Ci sono abilità e competenze che acquisiamo sin da piccoli e nel corso del tempo risulteranno sempre le stesse, con poche differenze di "applicazione": ad esempio portare la bicicletta!
Prendiamo il guidare la macchina invece: quando la prima volta provai a guidare una macchina con il cambio automatico fu un disastro (anche la seconda e svariate successive volte: le abitudini son difficili da sostituire!); alla fine ho acquisito la nuova abilità di sapere guidare un auto cui manca il terzo pedale che ho sempre conosciuto e grazie al quale guidavo.
Se nessuno mi avesse insegnato come si guida una macchina col cambio automatico probabilmente non ne avrei mai guidata una.
Pensate che siano riduttivi gli esempi citati? Non lo sono; abilità comportamentali e capacità mentali ed emotive si acquisiscono e si mantengono in maniere identica.

Laddove le varie strategie note che vengono utilizzate falliscono, ecco che si manifesta il malessere, l'ansia, la paura per qualcosa che non sappiamo fronteggiare: condizioni queste normalissime, umane.

Un altro esempio: non vi è mai capitato di essere a casa, in silenzio, immersi nei vostri pensieri e all'improvviso... un fortissimo rumore proveniente dall'esterno o dall'interno della vostra abitazione.
La prima reazione? Vi girate immediatamente verso la fonte del rumore con il cuore che vi palpita in gola (se non avete già mandato un urlo e vi siete buttati sotto il tavolo -anche queste reazioni "normali")
Che tipo di reazione è stata? Un riflesso innato, fisiologico di sopravvivenza: la paura di qualcosa di sconosciuto (il rumore) ha attivato il nostro corpo (il cuore che batte, le orecchie tese, i muscoli rigidi) e siamo pronti a scattare in caso di pericolo (o a fuggire - sotto il tavolo - o a richiamare l'attenzione - urlare -)
Questi esempi servono a dimostrare che tutte le reazioni emotive e/o fisiche messe in atto in particolari situazioni fanno parte della natura umana ed hanno una loro funzionalità o almeno l'avevano in altre circostanze.
Quindi l'ansia, la depressione, il panico non sono sintomo di pazzia ma reazioni naturali esagerate, frutto di strategie che in quella situazione non sono più funzionali ed esprimono a un bisogno che richiede la nostra attenzione.

Noi sappiamo di cosa abbiamo bisogno e cosa la vita che conduciamo ci porta a privarci e/o a negarci: a lungo andare, questo stress, queste forzature che facciamo alle nostre vite, per i più svariati motivi, potrebbero portare alla manifestazione di sintomi psicologici: difficoltà affettive e relazionali, disturbi dell'umore, disturbi d'ansia, disturbi alimentari, ossessioni, fobie, scarsa autostima, incapacità di gestire la rabbia e tutto ciò che può inficiare il nostro benessere psicologico.
Se possiamo prenderci cura di noi perchè non farlo in maniera adeguata?
Fattore determinante per chiedere aiuto ad uno psicologo diventa ovviamente quello economico che si lega a quello temporale: costa tanto e lo si dovrà fare per chissà quanti anni.
Non è assolutamente vero, almeno la seconda parte: una terapia adeguata può anche durare 3 mesi, 3 incontri, 3 anni. Sulla questione economica io (e capisco che sono di parte) la vedo come un investimento su se stessi e sulla propria salute: spendiamo tanto per tantissime cose che non sempre ci sono utili ed essenziali; possiamo riuscire a progettare un budget specifico per noi stessi e il nostro benessere che sarà un investimento per il futuro, quando non ne avremo più bisogno.


lunedì 10 giugno 2013

Curare il Disturbo da Attacchi di Panico


"L'Urlo" di E. Munch (Tipica rappresentazione del Disturbo da Attacchi di Panico!)


Avevo scritto del Disturbo da Attacchi di Panico nel precedente articolo e lo spunto per quest'altro, del tutto connesso al primo, mi è venuto da un interessante articolo trovato in rete  (http://www.stateofmind.it/2013/05/attacchi-panico-terapia-mantenimento).

La ricerca di cui si parla ha visto impegnati capoccioni universitari a cercare di scoprire i misteri della mente umana….ovviamente sempre con scarsi esiti e, soprattutto, portando come risultato delle cose così scontate (ma ribadite con parole diverse!) da farmi sorridere amabilmente…

Ovviamente non è una critica all’autrice dell’articolo ma alla ricerca in sé e mi spiego in merito.
È stato dimostrato ampiamente, attraverso protocolli di ricerca Evidence Based (=cioè con tanto di dati empirici, ricerche, analisi statistiche e tutto ciò che rende una teoria – in questo caso un metodo -  “scientificamente valida”) che la terapia cognitivo comportamentale è il trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia, fra cui il disturbo da attacchi di panico (con o senza agorafobia indica solo la presenza di un sintomo, l’agorafobia che è l’evitamento di situazioni sociali, fino al non uscire più di casa, creando una  una “variante” del disturbo da attacchi di panico).
Se una persona matura sin dal primo sintomo l’idea di rivolgersi ad uno psicoterapeuta per affrontare il problema, ci troveremo sicuramente in una fase acuta della sintomatologia: che si sia o meno già ripresentato un attacco di panico, lo stato ansioso della persona sarà certamente molto elevato a causa della paura che, appunto, si ripresenti il suddetto attacco di panico.
Si lavorerà dunque in questa fase acuta sui sintomi dell’ansia che durante un attacco di panico sono “semplicemente” amplificati all’ennesima potenza e più contingenti.
Per capirci: nella vita di tutti i giorni ho l’ansia che mi venga un attacco di panico, come accaduto in passato, e rivivere quella brutta esperienza di impazzire/morire/perdere il controllo (alla prima so stato fortunato ma chi mi dice che se dovesse riaccadere un attacco di panico non ci resto secco?!!?); nell’attacco di panico questi pensieri diventano reali e quasi tangibili: sto morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.
Dunque, il lavoro è sempre sulla sintomatologia ansiosa (l’attacco di panico è un disturbo d’ansia), sulle situazioni che generano l’ansia e, fulcro della terapia cognitivo comportamentale, sui pensieri che facciamo in quelle situazioni – le distorsioni cognitive, automatiche e inconsapevoli – che, in un circolo vizioso, alimentano l’ansia, ci fanno fare pensieri catastrofici (sto morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.) e ci fanno mettere in atto comportamenti per ridurre lo stato ansioso che ci porterebbe sicuramente ad avere un attacco di panico (o che crediamo ci farebbe avere un attacco di panico): il più delle volte comportamenti di evitamento e/o fuga dalle situazioni temute –fino all’instaurarsi dell’agorafobia.
Durante i primi mesi di terapia cognitivo comportamentale si lavora proprio su questi sintomi e su questi pensieri, come giustamente scritto nell’articolo citato: questo lavoro in genere va abbastanza spedito perché le persone hanno paura, vogliono liberarsi dall’ansia e, soprattutto, vogliono capire se stanno diventando pazze (!).
Primi mesi, in genere, significano, mi tengo largo, 4 – 6 mesi di terapia, considerando specifici casi individuali e le resistenze (anche inconsapevoli) che una persona può avere, per quanto tutti vogliano stare meglio.
Durante e dopo la prima fase d’attacco della terapia cognitivo comportamentale una persona dovrebbe potersi portare a casa utili e molteplici strumenti per affrontare le “tipiche” situazioni ansiogene e prevenire non l’attacco di panico bensì l’insorgere dell’ansia stessa (sebbene non si può eliminare completamente l’ansia dalla vita delle persone).
E dopo? I ricercatori citati dall’articolo parlando della terapia di mantenimento.
Va bene, perché no.
La mia domanda è: se la terapia cognitivo comportamentale, oggigiorno, ha i mezzi per indagare a fondo l’origine delle problematiche di una persona (la “nuova” generazione delle terapie cognitivo comportamentali: Acceptance and Commitment Therapy – ACT -, Mindfulness, Schema Therapy e un sacco di altre) e risolverle, perché  mai una persona che decide di fare il  mantenimento non dovrebbe essere motivata a risolvere davvero il proprio problema cercando di modificare quella base disfunzionale che si è attivata e che risale alle sue prime esperienze di vita?
Capisco che non tutti sono disposti ad un lavoro su se stessi così profondo e impegnativo.
In questi casi diventa fondamentale la relazione con il terapeuta: ai miei pazienti con disturbi d’ansia e di attacchi di panico, una volta “guariti” dall’ansia, auguro loro con tutto il cuore che gli strumenti che hanno imparato durante la terapia gli siano sempre utili nelle differenti situazioni future che potrebbero nuovamente scatenare una sintomatologia ansiosa anzi, che mai più si ripresenti una situazione che faccia scattare in loro tali sintomi (cosa anche questa molto probabile).
Mi sento però in dovere di ricordare loro che l’ansia, come qualunque altro disturbo, è un sintomo, un segnale di malesseri che hanno, probabilmente, origini più profonde e legate alle idee su noi stessi poco funzionali che si attivano in particolari situazioni e che ci procurano disagio.
Paradossalmente un disagio che serviva, in un passato, a proteggerci: se in una situazione temo di sembrare ridicolo allora è meglio che scappi per prevenire questa “realtà” (che io credo tale) su me stesso; stesso discorso nei casi di pericoli (sono debole, sono fragile) e in tutte le situazioni che mettono a repentaglio il nostro “fragile” ma inesatta idea su noi stessi.
Questo avveniva in passato: nel presente i sintomi ansiosi ci allarmano sul pericolo che possiamo correre e quindi ci procurano il disturbo perché i pensieri (appartenuti ad epoche “antiche”) sono così radicati in noi che crediamo siano le situazioni che ci hanno procurato il problema; crediamo sia sorta dal nulla l’ansia, la depressione o altro.
Dunque, un disagio può essere circoscritto ad un periodo di vita e non tornare mai più, si spera, come invece può ricapitare, una volta che si attiva l’idea su se stessi disfunzionale,  e ripresentarsi saltuariamente, fino a quando non verrà modificata quell’idea.
Quindi, terminata la fase di attacco sulla sintomatologia ansiosa e se una persona è motivata si può procedere, piuttosto che alla fase di mantenimento che allunga di un po’ di mesi il “benessere” raggiunto, ad una terapia che miri a ristrutturare idee e concetti di sé più profondi, che spesso sono “solo” frutto di educazione, acquisizioni culturali, influenze esterne che abbiamo passivamente accolto nella nostra persona in passato e che ora, purtroppo, una volta attivate, ci condizionano fortemente generando disagio psicologico.
In definitiva, ben venga il mantenimento, se una persona preferisce limitarsi alla cura sintomatologica, alla punta dell’iceberg: ma solo dopo che le persone siano informate del fatto che il disturbo da attacchi di panico, visto che di questo parla l’articolo, può essere curato all’origine e non solo “tamponato”.

lunedì 3 giugno 2013

Attacchi di Panico: guarire si può


Titolo pretenzioso probabilmente ma di certo realista.
Perchè dagli attacchi di panico si guarisce definitivamente, una volta capito cosa è, perchè accade (quindi cosa lo scatena) e, soprattutto, perchè accade proprio a noi!
Guarire non significa per forza assumere dei farmaci, per quanto a molte persone questa può sembrare la via più facile perchè da subito dei risultati: i farmaci, di fatto, eliminano il problema/sintomo(!) ....che si ripresenterà non appena si interromperà la loro assunzione, spesso perchè, appunto, si sta bene e senza sintomi.

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